Ritrovati i resti di Placido Rizzotto

Ritrovati i resti di Placido Rizzotto sindacalista ucciso dalla mafia nel '48Placido Rizzotto 

Il Dna lo hanno estratto da una tibia dello scheletro trovato in una foiba di Roccabusambra, a Corleone, accanto a una cintura e a una moneta di 10 centesimi coniata negli anni Venti. A 64 anni dalla sua scomparsa la polizia scientifica di Palermo è riuscita ad attribuire a Placido Rizzotto, il sindacalista della Cgil ucciso dalla mafia il 10 marzo del 1948, alcuni resti ossei ritrovati nel 2009 proprio nel posto in cui il cadavere di Rizzotto venne gettato dal boss di Corleone Luciano Liggio.
Una scoperta eccezionale dopo anni di appelli da parte della famiglia Rizzotto, che ha chiesto di far luce sulla scomparsa dei resti che erano stati recuperati nel 1949 durante le indagini condotte dal giovane capitano dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa. "A Corleone  -  ha più volte ribadito il nipote di Rizzotto, che porta lo stesso nome del sindacalista - i mafiosi hanno tutti una tomba nel cimitero. Placido Rizzotto ancora no". Il Dna estratto dai resti ritrovati a Corleone è stato comparato con quello del padre di Rizzotto, Carmelo, morto anni fa. La compatibilità, dopo mesi e mesi di studi di laboratorio, ha dato ragione all'ipotesi avanzata dalla polizia.
Placido Rizzotto fu ucciso a 34 anni dalla mafia per il suo impegno, a partire dal 1945, a favore del movimento contadino per l'occupazione delle terre. Un pastorello, Giuseppe Letizia, assistette al suo omicidio di nascosto e vide in faccia gli assassini. Venne ucciso con un'iniezione letale somministrata dal medico-boss Michele Navarra, indicato come il mandante dell'omicidio

Rizzotto. Le indagini sull'omicidio furono condotte dall'allora capitano dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa. Agli arresti finirono Vincenzo Collura e Pasquale Criscione. Fino al 1964 restò invece latitante Luciano Liggio, detto Lucianeddu, la primula rossa di Corleone. Il boss venne catturato nella casa di Leoluchina Sorisi, presunta fidanzata di Placido Rizzotto. I tre killer furono assolti per insufficienza di prove.
Il sindaco di Corleone, Antonino Iannazzo, ha accolto con grande soddisfazione la notizia. “Si chiude – dice - un mistero italiano che abbiamo chiesto di risolvere allo Stato. Già ci avevano provato i carabinieri con altri resti trovati nelle foibe, ma non avevano estratto il Dna. Questo risultato, mi hanno spiegato gli investigatori, dà una certezza al 76 per cento. La famiglia, dopo tanti anni, avrà finalmente una tomba su cui piangere”.

Fonte: palermo.repubblica.it

Giovanni Impastato a Brescia

“Un mese fa sono stato a Cinisi. Hanno messo una lapide sotto il balcone in cui abitò Peppino. Da quel balcone, da quella lapide, ci vogliono esattamente cento passi per arrivare al portone di Gaetano Badalamenti. Questa è la dimensione della vita in un paese di mafia, cento passi tra vittima e carnefice. Ci vuol poco a divorarli, quei cento passi. Ci volle poco, per Tano Seduto.”

Le parole di Claudio Fava, il figlio di Pippo, grande giornalista barbaramente ucciso nel 1984, raccontano alla perfezione quale fosse la realtà che Peppino Impastato aveva scelto di affrontare. L’immagine dei cento passi che lo dividevano dal potente boss mafioso, ripresa da Mario Tullio Giordana nel suo film, rende perfettamente l’idea di quanto forti fossero il coraggio e la passione che spingevano Peppino,  un giovane siciliano cresciuto in un paese mafioso, all’interno di una famiglia mafiosa. Peppino era un giovane brillante e ricco di idee. Avrebbe potuto abbandonare la sua terra per andare in cerca di fortuna altrove. Avrebbe potuto addirittura seguire le orme dello zio o del padre, e cercare fortune facili all’interno del mondo malavitoso. Fece la scelta più difficile: restare e combattere per la sua terra, per i suoi ideali.
Per questo motivo Peppino Impastato rappresenta per i giovani uno splendido esempio.
La sua vita, la sua storia, devono essere un modello da imitare.
Prima di tutto, però, c’è bisogno che qualcuno le racconti. E chi meglio di suo fratello Giovanni può narrare Peppino, le sue battaglie, le sue imprese?
Giovanni Impastato sarà ospite di due interessantissime serate in cui discuteremo del fratello, ma anche della Sicilia di allora: dell’oppressione esercitata da Cosa nostra, del muro di omertà che la circondava e dei rapporti  mafia-politica-imprenditoria.
Lo faremo analizzando in parallelo quello che accade oggi al nord, ed in particolare nella nostra Provincia, cercando di capire quali siano le similitudini, le situazioni che si ripetono, ma soprattutto in che modo possiamo renderci utili nel contrastare questo fenomeno, anche grazie agli insegnamenti che ci ha lasciato Peppino.
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Si comincia Lunedì 7 Novembre a Borgosatollo. Giovanni Impastato sarà ospite nell’ambito della rassegna “Esperienze vere – Storie di alcuni testimoni del nostro tempo”, arrivata alla sua quarta edizione ed organizzata quest’anno grazie alla collaborazione fra il “Comitato per la Pace” di Borgosatollo e la Rete Antimafia provincia di Brescia.
L’incontro si terrà presso il Teatro Comunale in via Leonardo da Vinci a partire dalle 20.45. A moderare: Erminio Bissolotti, giornalista del “Giornale di Brescia”.
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Martedì 8 Novembre si replica.
Giovanni Impastato sarà ospite dell’Associazione Universitaria “Studenti Per-UDU Brescia” presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Brescia, via San Faustino 41, a partire dalle 20.30.
Il dibattito “La mafia, ieri e oggi”,il primo incontro della rassegna “La mafia a cento passi da casa nostra”, vertirà su come la realtà mafiosa abbia cambiato completamente modo di agire e di propagarsi negli ultimi 30 anni.
Quello che era un fenomeno che pareva circoscritto al sud si è poi mostrato come un cancro il cui centro economico è diventato il nord Italia ed in particolare la Lombardia dei colletti bianchi. Fernando Scarlata, coordinatore del Comitato Peppino Impastato, membro della Rete Antimafia di Brescia ed autore di “Tentacoli. La criminalità mafiosa a Brescia”, e Giovanni Impastato, fratello di Peppino ucciso a Cinisi (Pa) nel 1978, rappresentano una diretta testimonianza ed analisi di questi due diversi tessuti sociali e di come la società civile si è adoperata per migliorarli. Ci forniranno un quadro generale dell’infiltrazione mafiosa in provincia e della percezione che la cittadinanza dimostra di avere di questo fenomeno focalizzando l’attenzione sui numerosi aspetti che accomunano la nostra situazione con quella nella Sicilia degli anni 70\80.
Giovanni e Fernando metteranno a disposizione rispettivamente la propria esperienza e la propria conoscenza per darci degli spunti utili per la nostra crescita in questo campo.
Due voci autorevoli che possono darci un quadro chiaro e completo dell’infiltrazione mafiosa in Lombardia, moderate e introdotte dal Professore Carlo Alberto Romano, titolare della cattedra di Criminologia presso la Facoltà di Giurisprudenza di Brescia.

Saranno due serate davvero molto interessanti e ricche di spunti, per questo motivo vi aspettiamo numerosi!

Ora lo stato non abbandoni il sostituto procuratore Lombardi

E' quando si spengono i riflettori che la ndrangheta torna a colpire, quando vanno via le telecamere e non si parla più di magistrati sotto minaccia.
Non ci si concentra più sui loro volti, sulle loro vite condizionate dal lavoro e spesso contrassegnate da minacce.

Il sostituto procuratore Giuseppe Lombardi é uno di questi: il suo ruolo é tra i più duri in una terra difficile come la Calabria.
In una terra dove la ndrangheta dopo gli arresti eccellenti degli scorsi mesi ribatte di nuovo un colpo per incutere timore. Solo cosi si può leggere il ritrovamento di un ordigno vicino all'automobile del Sostituto Procuratore. Ordigno che, secondo i primi rilievi, poteva, esplodendo, mandare in frantumi i vetri del palazzo di fronte, spostare una macchina, ma sopratutto, e questo é il fatto più grave, uccidere un uomo.
E l'obbiettivo era propio lui: Giuseppe Lombardi.

La bomba era confezionata con dei ritagli dei giornali che parlavano della dura requisitoria fatta alcuni giorni fa dal Sostituto Procuratore durante il processo Meta, quando ha chiesto pesanti condanne per i mafiosi e gli imprenditori imputati.
Ma non é solo questo.
La ndrangheta ha lanciato un avvertimento preciso: si vocifera di future operazioni che coinvolgeranno imprenditori e politici.

"Ti faremo la festa" recitava il biglietto di minacce.
Per il magistrato Lombardi é la quarta intimidazione in meno di due anni.
Anni duri, sempre in prima linea assieme agli altri magistrati della procura di Reggio Calabria. Due anni senza nessuna tutela essendo fino a pochi giorni fa totalmente sprovvisto di scorta.
Il comitato di pubblica sicurezza ha infatti deciso durante l'ennesima riunione di affidare la scorta al magistrato.
Ci sono voluti due anni e quattro intimidazioni. Meglio tardi che mai!

Ma anche se ora il Sostituto Procuratore è più protetto lo scenario non cambia in un paese come l'Italia dove ogni giorno chi indaga sui poteri forti e sulla commistione di questi con la criminalità organizzata viene delegittimato e isolato.
Speriamo che oltre alla scorta al coraggioso magistrato Lombardi sia fornito dalle Istituzioni locali e nazionali il massimo sostegno. Infatti per poter svolgere indagini così delicate non serve solo la massima dedizione ma anche un forte appoggio per sentirsi meno soli di fronte a questa dura lotta.


Sarà difficile visto che al centro dell'ambito politico ci sono al vaglio misure liberticide che potrebbero ridurre le armi giudiziare per combattere le mafie, ma sono sicuro che tutti i cittadini calabresi onesti sono e saranno sempre al fianco del Sostituto Procuratore Giuseppe Lombardi ed a tutta la coraggiosa procura di Reggio Calabria.

Anna Politkovskaja: “Il mio lavoro ad ogni costo”

Sono una reietta. È questo il risultato principale del mio lavoro di giornalista in Cecenia e della pubblicazione all’estero dei miei libri sulla vita in Russia e sul conflitto ceceno. A Mosca non mi invitano alle conferenze stampa né alle iniziative in cui è prevista la partecipazione di funzionari del Cremlino: gli organizzatori non vogliono essere sospettati di avere delle simpatie per me.

Eppure tutti i più alti funzionari accettano d’incontrarmi quando sto scrivendo un articolo o sto conducendo un’indagine. Ma lo fanno di nascosto, in posti dove non possono essere visti, all’aria aperta, in piazza o in luoghi segreti che raggiungiamo seguendo strade diverse, quasi fossimo delle spie. Sono felici di parlare con me. Mi danno informazioni, chiedono il mio parere e mi raccontano cosa succede ai vertici. Ma sempre in segreto.

È una situazione a cui non ti abitui, ma impari a conviverci: erano queste le condizioni in cui lavoravo durante la seconda guerra in Cecenia, scoppiata nel 1999. Mi nascondevo dai soldati federali russi, ma grazie ad alcuni intermediari di fiducia riuscivo comunque a stabilire dei contatti segreti con le singole persone. In questo modo proteggevo i miei informatori.

Dopo l’inizio del piano di “cecenizzazione” di Putin (ingaggiare i ceceni “buoni” e fedeli al Cremlino per uccidere i ceceni “cattivi” ostili a Mosca), ho usato la stessa tecnica per entrare in contatto con i funzionari ceceni “buoni”. Molti di loro li conoscevo da tempo dato che, prima di diventare “buoni”, mi avevano ospitato a casa loro nei mesi più duri della guerra.

Ormai possiamo incontrarci solo in segreto perché sono considerata una nemica impossibile da “rieducare”. Non sto scherzando. Qualche tempo fa Vladislav Surkov, viceresponsabile dell’amministrazione presidenziale, ha spiegato che alcuni nemici si possono far ragionare, altri invece sono incorreggibili: con loro il dialogo è impossibile. La politica, secondo Surkov, dev’essere “ripulita” da questi personaggi. Ed è proprio quello che stanno facendo, non solo con me.

L’imboscata
Il 5 agosto del 2006 mi trovavo in mezzo a una folla di donne nella piccola piazza centrale di Kurchaloj, un villaggio ceceno grigio e polveroso. Portavo una sciarpa arrotolata sulla testa come fanno molte donne locali della mia età. La sciarpa non copriva completamente il capo ma non lo lasciava neanche scoperto. Era fondamentale non essere identificata, altrimenti mi sarebbe potuto succedere di tutto. Su un lato della piazza, appesa al gasdotto che attraversa Kurchaloj, c’era una tuta da uomo intrisa di sangue. La testa, invece, non c’era più. L’avevano portata via.

Nella notte tra il 27 e il 28 luglio due guerriglieri ceceni sono caduti in un’imboscata tesa alla periferia di Kurchaloj da alcuni uomini fedeli all’alleato del Cremlino, Ramzan Kadyrov, il primo ministro ceceno. Adam Badaev è stato catturato mentre Hoj-Ahmed Dushaev, originario di Kurchaloj, è stato ucciso. Verso l’alba una ventina di Zhiguli piene di uomini armati hanno raggiunto il centro del villaggio dove si trova il commissariato di polizia. Portavano la testa di Dushaev. Due uomini l’hanno fissata al gasdotto al centro del villaggio e sotto hanno appeso i pantaloni macchiati di sangue. Poi hanno trascorso le due ore successive a fotografare la testa con i cellulari.

La testa mozzata è rimasta esposta per ventiquattr’ore. Alla fine gli uomini della milizia l’hanno portata via, lasciando i pantaloni appesi alla tubatura. Gli agenti dell’ufficio del procuratore generale intanto stavano esaminando la scena dell’imboscata. Gli abitanti del paese assicurano di aver sentito uno degli agenti chiedere a un subordinato: “Hanno finito di ricucire la testa?”. Il corpo di Dushaev, con la testa ricucita al collo, è stato riportato sul luogo dell’imboscata, e l’ufficio del procuratore generale ha avviato l’indagine seguendo le normali procedure investigative. Ho scritto un articolo per raccontare l’episodio, senza fare commenti ma fornendo una ricostruzione dei fatti. Sono tornata in Cecenia proprio quando in edicola usciva il giornale con il mio articolo.

In piazza le donne hanno cercato di nascondermi. Erano sicure che gli uomini di Kadyrov mi avrebbero sparato se avessero saputo che ero lì. Tutte mi hanno ricordato che il premier aveva giurato pubblicamente di uccidermi. Era successo durante una riunione dell’esecutivo: Kadyrov aveva dichiarato di averne abbastanza e aveva aggiunto che Anna Politkovskaja era una donna spacciata. Me lo hanno raccontato alcuni membri del governo. Perché tanto odio? Forse non gli piacevano i miei articoli? “Chi non è dei nostri è un nemico”. Lo ha detto Surkov, il principale sostenitore di Kadyrov nell’entourage di Putin.

“È talmente stupida che non conosce neanche il valore dei soldi. Le ho offerto del denaro ma non lo ha accettato”, ha detto Kadyrov a un mio vecchio conoscente, un ufficiale delle forze speciali della milizia. È “uno dei nostri”, e se ci avessero sorpresi a parlare di certo avrebbe passato dei guai. Al momento di salutarci, fuori era buio. L’ufficiale mi ha pregato di non uscire, perché aveva paura che mi uccidessero. “Non andare. Ramzan è molto arrabbiato con te”. Sono uscita lo stesso. Quella notte a Grozny avrei dovuto incontrare una persona di nascosto.

Si è offerto di farmi accompagnare con un’auto della milizia, ma l’idea mi sembrava ancora più rischiosa: sarei diventata un bersaglio per i guerriglieri. “Ma almeno nella casa dove stai andando sono armati?”, mi ha chiesto con aria preoccupata. Durante tutta la guerra sono stata tra due fuochi. Quando qualcuno minaccia di ucciderti i suoi nemici ti proteggono. Ma domani la minaccia verrà da qualcun altro. Perché mi dilungo su questa storia? Solo per spiegare che in Cecenia le persone sono preoccupate per me, e questo fatto mi commuove profondamente. Temono per la mia vita più di me.

Perché Kadyrov vuole uccidermi? Una volta l’ho intervistato e ho pubblicato le sue risposte senza cambiare una virgola, rispettando tutta la loro incredibile stupidità e ignoranza. Kadyrov era convinto che avrei riscritto completamente l’intervista, per farlo apparire più intelligente. In fondo oggi la maggior parte dei giornalisti, quelli che fanno parte “dei nostri”, si comporta così.

Basta questo per attirarsi una minaccia di morte? La risposta è semplice come la visione del mondo incoraggiata dal presidente russo Vladimir Putin. “Dobbiamo essere spietati con i nemici del reich”. “Chi non è con noi è contro di noi”. “Gli oppositori devono essere eliminati”.

“Perché ti sei fissata sulla storia della testa tagliata?”, mi ha chiesto a Mosca Vasilij Panchenkov, che dirige l’ufficio stampa delle truppe del ministero degli interni, pur essendo una persona per bene. “Non hai altro a cui pensare?”. Mi sono rivolta a lui per avere un commento su Kurchaloj per la Novaja Gazeta. “Lascia perdere, fai finta che non sia successo niente. Lo dico per il tuo bene!”.

Ma come posso dimenticare? Detesto la linea del Cremlino elaborata da Surkov, che divide le persone tra chi “è dalla nostra parte” e chi “non lo è” o addirittura “è dall’altra parte”. Se un giornalista è “dalla nostra parte” otterrà premi e rispetto, e forse gli proporranno perfino di diventare un deputato della duma, il parlamento russo. Ma se “non è dalla nostra parte”, sarà considerato un sostenitore delle democrazie europee e dei loro valori, diventando automaticamente un reietto. Questo è il destino di chiunque si opponga alla nostra “democrazia sovrana”, alla “tradizionale democrazia russa”.

Riferire i fatti
Non sono un vero animale politico. Non ho aderito a nessun partito perché lo considero un errore per un giornalista, almeno in Russia. E non ho mai sentito la necessità di difendere la duma, anche se ci sono stati anni in cui mi hanno chiesto di farlo. Quale crimine ho commesso per essere bollata come “una contro di noi”? Mi sono limitata a riferire i fatti di cui sono stata testimone. Ho scritto e, più raramente, ho parlato.

Pubblico pochi commenti, perché mi ricordano le opinioni imposte nella mia infanzia sovietica. Penso che i lettori sappiano interpretare da soli quello che leggono. Per questo scrivo soprattutto reportage, anche se a volte, lo ammetto, aggiungo qualche parere personale. Non sono un magistrato inquirente, sono solo una persona che descrive quello che succede a chi non può vederlo. I servizi trasmessi in tv e gli articoli pubblicati sulla maggior parte dei giornali sono quasi tutti di stampo ideologico. I cittadini sanno poco o niente di quello che accade in altre zone del paese e a volte perfino nella loro regione.

Il Cremlino ha reagito cercando di bloccare il mio lavoro: i suoi ideologi credono che sia il modo migliore per annullare l’effetto di quello che scrivo. Ma impedire a una persona che fa il suo lavoro con passione di raccontare il mondo che la circonda è un’impresa impossibile. La mia vita è difficile, certo, ma è soprattutto umiliante. A 47 anni non ho più l’età per scontrarmi con l’ostilità e avere il marchio di reietta stampato sulla fronte. Non parlerò delle altre gioie del mio lavoro – l’avvelenamento, gli arresti, le minacce di morte telefoniche e online, le convocazioni settimanali nell’ufficio del procuratore generale per firmare delle dichiarazioni su quasi tutti i miei articoli. La prima domanda che mi rivolgono è sempre la stessa: “Come e dove ha ottenuto queste informazioni?”.

Naturalmente gli articoli che mi presentano come la pazza di Mosca non mi fanno piacere. Vivere così è orribile. Vorrei un po’ più di comprensione. Ma la cosa più importante è continuare a fare il mio lavoro, raccontare quello che vedo, ricevere ogni giorno in redazione persone che non sanno dove altro andare. Per il Cremlino le loro storie non rispettano la linea ufficiale. L’unico posto dove possono raccontarle è la Novaja Gazeta.

***

Questo articolo è stato scritto per Another sky, un’antologia curata dall’associazione English Pen (www.englishpen.org) che sarà pubblicata nella primavera del 2007 da Profile Books.

Internazionale, numero 665, 26 ottobre 2006

Menefreghismo all'italiana sul caso Agostino

Scritto da Davide Tassan Zorat per 19luglio1992.it

Giovedì 06 Ottobre 2011 22:18

Il 5 agosto 2011 sul lungomare Cristoforo Colombo a Palermo, luogo dell’omicidio di Nino Agostino e Ida Castelluccio(5/08/89), è stata scoperta una targa commemorativa realizzata dal Comune di Carini.

In quei giorni, complici forse l’interesse del Movimento Agende Rosse, di Addiopizzio, di Libera, del comitato Cittadinanza per la Magistratura e dalla Petizione creata da Giovanni Perna e promossa  nel sito 19luglio1992, alcune testate giornalistiche hanno posto attenzione all’ennesima triste e scomoda  storia di VITTIME INNOCENTI DI MAFIA DIMENTICATE.     

Le persone che in quei giorni hanno letto i pochissimi articoli pubblicati in merito si saranno forse chiesti se IL SEGRETO DI STATO che la famiglia Agostino, documenti alla mano, ha sempre sostenuto essere stato posto sulla morte di Nino e Ida , corrisponda ad un atto ufficiale oppure trattasi di un errore di interpretazione o peggio di una strumentalizzazione. Chi ha ritenuto, in quei giorni, di dover approfondire la morte di Nino e Ida si sarà forse domandato se realmente Giovanni Falcone, durante i funerali dei due coniugi, abbia veramente pronunciato le parole: “a questo poliziotto devo la vita” ? Chi è stato incuriosito da questo triplice omicidio (Ida 19enne era incinta ndr) si sarà posto il dubbio se realmente Nino Agostino ed Emanuele Piazza, possano aver sventato l’attentato all’Addaura? Tanti magari avranno pensato che il giuramento solenne di Vincenzo Agostino e della moglieAugusta (non tagliarsi né barba né capelli e non togliere il lutto fino alla scoperta della verità) non sia altro che un atto di “pazzia” di due anziani che non si rassegnano alla morte senza giustizia dei loro cari.

Domande, dubbi e curiosità ovvi se consideriamo che, sul caso Agostino, negli anni, si sono sprecati i depistaggi e le strumentalizzazioni generando ciò che chiamiamo OMERTA’ DI STATO! Omertà spesso indispensabile per coprire verità troppo scomode che, in questo caso, potrebbero forse aiutare a far luce sul fallito attentato all’Addaura se non addirittura sulle Stragi del 92 e del 93.

Le domande che però, prima di tutte, ci si dovrebbe porre sono: chi vuole VERAMENTE la verità sulla morte di Nino e Ida? Chi VERAMENTE ha a cuore la battaglia ventennale della famiglia Agostino?

Il 5 agosto 2011 sembrava quasi che questa voglia di verità fosse diventata finalmente una priorità di molti ma, complici caldo e vacanze, ora la richiesta di giustizia per Nino e Ida, è rimasto solo un urlo strozzato di un vecchietto con la barba lunga e di una mamma dal lutto perenne.

L’INDIFFERENZA è l’unica verità incontestabile riscontrata negli anni dagli Agostino; prova né è il fatto che, la petizione pubblicata sul sito seguitissimo www.19luglio1992.com, è stata firmata da poco più di 1.700 persone.

Sulla morte di Agostino e della moglie forse, un giorno, si scoprirà tutta la verità ma, prima che si giunga ad una sentenza di condanna definitiva, sicuramente la loro memoria verrà seppellita dall’omertà dei tanti o peggio, verrà ulteriormente infangata da nuovi depistaggi.

In attesa della doverosa giustizia oggi, per la famiglia Agostino, c’è invece la magra consolazione di una targa dover poter piangere i propri morti nella quasi totale indifferenza popolare. Indifferenza che dovrebbe far riflettere perchè, in fondo, gli Agostino siamo noi! La storia di Nino e Ida, come quelle delle centinaia vittime di mafia dimenticate, potrebbe benissimo essere la triste realtà del vicino di casa o di un nostro parente trovatosi al momento sbagliato nel posto sbagliato.

Riflettendo su questo triste ma sempre attuale MENEFREGHISMO POPOLARE mi chiedo: ma  quel fresco profumo di libertà di cui spesso parlò Paolo Borsellino, e che oggi è diventato “bandiera” di molti, si potrebbe (dovrebbe?) forse respirare schierandoci tutti assieme e attivamente anche con e per la famiglia Agostino?


Davide Tassan Zorat

presidente

Ass.ne LA MAFIA NON E’ SOLO SUD

Diciamo NO al comma “ammazzablog”

Cosa prevede il comma 29 del ddl di riforma delle intercettazioni, sinteticamente definito comma ammazzablog?

Il comma 29 estende l’istituto della rettifica, previsto dalla legge sulla stampa, a tutti i “siti informatici, ivi compresi i giornali quotidiani e periodici diffusi per via telematica”, e quindi potenzialmente a tutta la rete, fermo restando la necessità di chiarire meglio cosa si deve intendere per “sito” in sede di attuazione.

Cosa è la rettifica?

La rettifica è un istituto previsto per i giornali e le televisione, introdotto al fine di difendere i cittadini dallo strapotere di questi media e bilanciare le posizioni in gioco, in quanto nell’ipotesi di pubblicazione di immagini o di notizie in qualche modo ritenute dai cittadini lesive della loro dignità o contrarie a verità, questi potrebbero avere non poche difficoltà nell’ottenere la “correzione” di quelle notizie. La rettifica, quindi, obbliga i responsabili dei giornali a pubblicare gratuitamente le correzioni dei soggetti che si ritengono lesi.

Quali sono i termini per la pubblicazione della rettifica, e quali le conseguenze in caso di non pubblicazione?

La norma prevede che la rettifica vada pubblicata entro due giorni dalla richiesta (non dalla ricezione), e la richiesta può essere inviata con qualsiasi mezzo, anche una semplice mail. La pubblicazione deve avvenire con “le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono”, ma ad essa non possono essere aggiunti commenti. Nel caso di mancata pubblicazione nei termini scatta una sanzione fino a 12.500 euro. Il gestore del sito non può giustificare la mancata pubblicazione sostenendo di essere stato in vacanza o lontano dal blog per più di due giorni, non sono infatti previste esimenti per la mancata pubblicazione, al massimo si potrà impugnare la multa dinanzi ad un giudice dovendo però dimostrare la sussistenza di una situazione sopravvenuta non imputabile al gestore del sito.

Se io scrivo sul mio blog “Tizio è un ladro”, sono soggetto a rettifica anche se ho documentato il fatto, ad esempio con una sentenza di condanna per furto?

La rettifica prevista per i siti informatici è quella della legge sulla stampa, per la quale sono soggetti a rettifica tutte le informazioni, atti, pensieri ed affermazioni ritenute dai soggetti citati nella notizia “lesivi della loro dignità o contrari a verità”. Ciò vuol dire che il giudizio sulla assoggettabilità delle informazioni alla rettifica è esclusivamente demandato alla persona citata nella notizia, è quindi un criterio puramente soggettivo, ed è del tutto indifferente alla veridicità o meno della notizia pubblicata.

Posso chiedere la rettifica per notizie pubblicate da un sito che ritengo palesemente false?

E’ possibile chiedere la rettifica solo per le notizie riguardanti la propria persona, non per fatti riguardanti altri.

Chi è il soggetto obbligato a pubblicare la rettifica?

La rettifica nasce in relazione alla stampa o ai telegiornali, per i quali esiste sempre un direttore responsabile. Per i siti informatici non esiste una figura canonizzata di responsabile, per cui allo stato non è dato sapere chi sarà il soggetto obbligato alla rettifica. Si può ipotizzare che l’obbligo sia a carico del gestore del blog, o più probabilmente che debba stabilirsi caso per caso.

Sono soggetti a rettifica anche i commenti?

Un commento non è tecnicamente un sito informatico, inoltre il commento è opera di un terzo rispetto all’estensore della notizia, per cui sorgerebbe anche il problema della possibilità di comunicare col commentatore. A meno di non voler assoggettare il gestore del sito ad una responsabilità oggettiva relativamente a scritti altrui, probabilmente il commento (e contenuti similari) non dovrebbe essere soggetto a rettifica.